Inno all'odio per feanor figlio del fuoco By MKDIESIS



"Fëanor infatti, giunto alla pienezza del proprio vigore, era tutto preso da un nuovo pensiero, ma può anche essere che abbia preavvertito un'ombra della sorte che s'avvicinava; e rifletteva su come conservare imperitura la luce degli Alberi, gloria del Reame Beato. Diede allora mano a un lungo e segreto lavoro, facendo appello a tutta la propria sapienza, potenza e sottile abilità; e alla fine, ecco che produsse i Silmaril. I quali erano, quanto a forma, come tre grandi gioielli." 

Così J.R.R. Tolkien descriveva nel suo celebre Silmarillion la creazione dei Silmaril stessi, oggetti mistici e magici, custodi della luce e dell'arte che il potente Fëanor plasmò. Se non avete dimestichezza con le opere di Sua Maestà Tolkien, oppure se non siete andati oltre Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, ebbene questa è la sottotrama mitopoietica principale di un capolavoro che purtroppo non ha raggiunto la popolarità delle opere più blasonate del maestro, pur essendone l'opera più complessa e importante; il Silmarillion infatti funge da cosmogonia di Arda, ovvero il pianeta Terra declinato al mito, e narra tutti gli avvenimenti intercorsi tra la sua genesi e le ere successive fino a dopo l'inconorazione di Aragorn Re.

Il Silmarillion è un libro frammentario, frutto sapiente di un laborioso lavoro cui il buon John si dedicò per molto tempo per imbastire una genesi mitica del mondo da lui immaginato, e che raccoglieva racconti, poemi, insiemi di tradizioni trasmesse oralmente nel corso dei tempi raccolte all'interno di un compendio, per così dire, come sono compendi tutti quei libri o racconti che tentano di spiegare l'evolversi del nostro mondo a livello epico e talvolta religioso. Ma non è di questo che voglio parlarvi, anche perché è impossibile parlare delle opere di Tolkien nei brevi editoriali che mi concedo senza risultare oltremodo sbrigativo.

Fëanor, il protagonista del mio editoriale, era un Noldor, vale a dire un Elfo, parte della stirpe che decise di vivere con i potenti Valar, veri e propri Dei, in quel di Valinor. Era un Elfo molto potente e abile, tuttavia il suo temperamento focoso e ardimentoso lo rese croce e delizia del suo popolo. D'altronde il padre del valente Noldor già affermò che mai avrebbe potuto crescere un'altro figlio, giacché tutto il vigore e l'energia necessaria era convogliata in Fëanor, la cui madre diede ulteriore nome Quenya, ovvero "Spirito di fuoco"...bel tipino il nostro, eh?
Una volta raggiunta l'abilità necessaria egli forgiò tre Silmaril, potentissimi oggetti che recavano la Luce dei Due Sacri Alberi di Valinor e ne divenne ossessionato. Non mostrava ad altri le sue creazioni e anzi riteneva che perfino i potenti Valar cospirassero per ottenerne il possesso; quel fuoco interiore, l'orgoglio bruciante e un sentimento di cupidigia e odio si impadronirono di lui, ed è da questi sentimenti espressi dalla sua natura più intima che egli forgiò quegli oggetti così preziosi e allo stesso tempo pericolosi.

Non furono i Silmaril a evocare in lui quei comportamenti, ma furono quei comportamenti figli dell'iracondo Fëanor a generarli. Dopo che Melkor, l'oscuro Signore fù liberato dalla sua prigionia e gli fù permesso di camminare fra i Noldor, egli preparò la sua vendetta, sicché voleva la distruzione di Valinor e maledirne gli abitanti; cominciò a tramare e ad insinuare il dubbio che i Valar fossero gelosi degli Elfi, quantunque molti di essi cominciarono a convincersene anche Fëanor sospettava che in realtà volessero soltanto prendersi i Silmaril. Ma egli non cadde nel tranello di Melkor, non fù mai soggiogato da lui e soltanto la sua natura lo portò ad ambire le sue creazioni come opere che soltanto la sua mano poteva toccare. 

Melkor riuscì ad essiccare i Due Alberi di Valinor e ad uccidere Finwe, padre di Fëanor, sottraendo così i Silmaril che erano rimasti nelle segrete stanze dove viveva il loro creatore, ormai lontano da Valinor, e a fuggire nella Terra di Mezzo. Il dolore, la rabbia e l'odio concupirono l'animo di Fëanor e la sua insaziabile sete di vendetta e il desiderio di riappropriarsi delle sue più grandi opere lo portarono a prestare un terribile giuramento che giurava morte e tormento a chiunque fosse entrato in possesso dei Silmaril, eccetto che a lui e ai suoi discendenti. Fatto questo egli e la sua stirpe, e gran parte dei Noldor, lascerà per sempre Valinor. La storia prosegue poi con le avventure di Fëanor e dei suoi discendenti alla ricerca dei Silmaril, poiché ormai erano divenuti lasciti testamentari dei Due Alberi andati persi per sempre, e più che una volontà vendicativa quella di Fëanor era una volontà artistica animata dal desiderio di riappropriarsi delle sue creazoni.

Quella di Fëanor è una delle figure più affascinanti e intriganti che la penna di Tolkien ha generato, e sottilmente egli può essere avvicinato alla figura tipica dell'Artista diciamo non convenzionale; da che mondo e mondo spesso ci si trova a scindere l'opera di un artista dall'artista stesso, spesso però questa soluzione è del tutto arbitraria e non vale in ogni caso. Ci si domanda allora se è giusto valutare un'opera esternamente al suo ideatore, oppure se le cose siano inscindibili fra loro. I Silmaril sono da valutare unicamente per l'importanza e la bellezza che emanano, o sono da "condannare" per via delle riprovevoli azioni di Fëanor loro creatore, e per via dei sentimenti negativi con cui sono stati in parte concepiti?

Se ci trovassimo al cospetto di un'opera di vario tipo, bellissima e prova di massimo estro artistico tale da rimanere e segnare i tempi correnti, ma venissimo a conoscenza che chi l'ha concepita è un essere abbietto autore di qualche efferato crimine, oppure un individuo detestabile, come valuteremmo allora la sua opera? La salvaguarderemo strappandola dal suo creatore, o la condanneremo insieme al suo creatore? Ecco che subentra la moralità comune ed è difficile differenziare realmente l'uomo/artista dalle sue opere. Eppure non possiamo esimerci dal farlo.

Chiunque dica il contrario mente spudoratamente, perché se davvero dovessimo valutare un dipinto, una scultura o la musica e qualunque altro frutto della creatività umana in base alla moralità dell'individuo che stà dietro a tale creatività, ebbene dovremmo sconfessare e abiurare la maggior parte dell'arte che ci circonda.
Benvenuto Cellini e Caravaggio ad esempio sono stati criminali, hanno commesso svariati reati fin'anche omicidi, eppure nessuno si sognerebbe di distruggere le opere che il loro genio ha creato; e anche quelle pulsioni nascoste, quei sentimenti negativi hanno contribuito a renderli capaci di realizzare quelle opere.

Chiaro che ci sono stati molti più uomini canonici che hanno lasciato il segno senza macchiarsi di reati, ma è indubbio che vi è una quantità enorme di artisti che la fedina penale linda non ce l'avevano; possiamo prendere i campi più disparati delle categorie artistiche e di esempi ne avremo a bizeffe. Se poi, oltre a questo, considereremmo anche le varie forme di disturbo mentale o presunte tali, allora ci troveremmo con una lista infinita. 
Sebbene condanniamo con fermezza certi comportamenti, e giudichiamo la moralità degli individui condannandoli (giustamente) al carcere qualora siano definiti socialmente pericolosi, non possiamo utilizzare lo stesso metro di paragone con gli artisti.

Essi esulano da talune categorie e siamo obbligati a scindere ciò che creano dalla loro personalità, poiché comprendiamo il valore delle loro opere e non possiamo a livello culturale, permettere che ciò che umanamente rappresentano infici e condanni la genialità artistica che indubbiamente rivestono. Eppure vanno fatti vari distinguo affinché non si rischi una generalizzazione, per questo discorsi di questo tipo sono accettati e giustificati se riguardano personaggi lontani nel tempo, vissuti in epoche certamente più difficili da quelle odierne; ma ciò non toglie il fatto che quei crimini erano tali allora e lo sono oggi, quindi fare dei distinguo del genere è soltanto una paraculata. 
Se noi accettiamo queste opere e le facciamo patrimonio culturale, dobbiamo accettare anche chi le ha realizzate e nonostante questo scindere le due cose: condannare quelle azioni per salvare l'arte stessa.

Sembra un discorso banale, ma vi assicuro che in più occasioni mi è capitato di assistere a discussioni che tendevano ad associare l'autore con le sue opere, e quindi codannarli entrambi per la personalità di quell'individuo, e adottare altri metodi di giudizio diametralmente opposti in altri frangenti. E' un tema spigoloso questo, poiché va a toccare quella varia gamma di sentimenti squalificanti che vengono condannati come fossero parti esterne dall'individuo, e non una parte della coscienza umana.

Rabbia, odio, desideri abbietti, violenza d'animo sono tutte parti della natura umana, e in sé non possono essere condannati giacché condanneremo l'umanità stessa. Spesso si cerca, scadendo nel buonismo, di rappresentare il male e il bene quali fossero forze che si scontrano su determinate rappresentazioni sentimentali, e nel modo di rappresentare l'arte, specie oggigiorno, si salvaguardano l'amore, i buoni propositi, la felicità e chiunque rappresenti il proprio estro artistico inebriato di tali umori. 

Ma anche la negatività amorale, quei brutti sentimenti sono vitali per l'essere umano ed è proprio con quei sentimenti negativi che molti hanno convissuto per generare slanci creativi, ed essi sono indispensabili tramiti di cocienza per realizzare appieno l'individuo. Tolti i criminali e i pazzi, quanti hanno represso il materializzarsi di tali sentimenti convogliandoli nelle loro espressioni artistiche? Allora vi dico viva l'odio, la rabbia, la violenza ed ogni impulso malvagio se questo serve, come è servito fin'ora, ha lasciare altissime tracce creative nel mondo. Non sono questi sentimenti in sé ad essere condannabili, ma da condannare vi è solo il modo in cui vengono espressi.

Talune culture sono incapaci di fare questo e soggiaciono ad istinti che addirittura vanno a formare un artista laddove vi è soltanto un criminale: esempi emblematici ci vengono dagli USA dove serial killer e schizofrenici vari sono assurti a uomini di spettacolo, personaggi iconici, benché non abbiano certo espresso dell'arte a livelli tali da venir ricordati per essa. Un caso su tutti, quello di Charles Manson.

Se già il valutare un opera come degna dell'immortalità è molto complicato, poiché subentra certa soggettività e metodo di giudizio contrastanti, farlo anche a seconda della personalità dell'individuo diventa un esercio di stile per la pazzia. L'unica cosa da fare è coscienzosamente prendere il risultato della creatività e valutarla come parte totale dell'individuo che l'ha espressa, ma scindendola e rendendola unica creazione in sé. Solo così si può fare un discorso che davvero vuol preservare ciò che c'è di buono, senza falsi moralismi o doppiopesismi. 

La negatività fà parte dell'umanita e va espressa su tutte le categorie, pensiamo anche alla musica più pesante e "cattiva" o al cinema più brutale ed efferato, mai si potrebbe condannare queste come non meritevoli di essere considerate forme d'arte; e se si compie il messaggio che condanna l'arte come frutto di una mente criminale, basandosi sulle emozioni espresse come se costituissero condanne giudiziare, allora si finirebbe soltanto per limitare e castrare l'arte stessa, creando un simulacro che sempre si ripete e offre sentimenti costruiti, e non vissuti. 

E ora vi dico: Viva l'odio, abbracciamo l'odio e lodiamo i Silmaril pur non amando Fëanor



 



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